La Giggia corre di nuovo: restauro di una B&O/R ... in Tibet di Giorgio Cortassa
C16 Dockside Old Warriors never die!!
... even if they are so small like “Little Joe” Mi chiamo Giorgio, sono un medico e scrivo da Shigatse, Tibet Centrale, mio attuale posto di lavoro per un progetto di cooperazione. Che c’entro coi treni? Sono nato in Liguria, in un posto stretto tra il mare e la ferrovia: l’orizzonte aperto su tutte le rotte e l’avventura davanti, la via sicura tracciata dai binari alle spalle. E’ successo che a fine dicembre, trovandomi in Italia per le vacanze, ho dovuto sgomberare una vecchia casa della nostra famiglia e tra le tante cose mi e’ passato tra le mani il magnifico Rivarossi della mia infanzia, con il quale negli anni ’60 tante ore felici ed istruttive ho passato assieme a mio padre. Lo stesso Rivarossi, negli anni ’90, ha assolto la stessa funzione per mio figlio, con il suo grande nonno: il fermodellismo unisce le generazioni! Controllando il materiale prima di immagazzinarlo religiosamente verifico che e’ tutto abbastanza in ordine. Anche una “favolosa” Gr-221 (i lettori di questo sito sanno quanto “favolosa”) che aveva la “zamapest” vedo che e’ stata restaurata da mio padre. Sulla scatola della B&O/R pero’ noto una scritta allarmante in inchiostro rosso: “Blocco cilindri sbriciolato!”.
Effettivamente i due cilindri sono in condizioni pietose, staccati dalla zavorra, la cassa con tutta la macchina e’ completamente smontata. Ora, questa piccolina, da bambino, era la mia preferita: la chiamavamo “La Giggia”. Col suo aspetto ciccione ed il passo cortissimo sulle curve strette filava “come un treno”. Decido immediatamente che questo restauro lo finisco io e siccome il giorno dopo devo partire per tornare in Tibet imballo bene La Giggia e la butto nello zaino.
Il 16 gennaio sono a Lhasa e faccio un salto in stazione, dove alle h1345 scatto questa foto alla coppia di potenti NJ2 General Electric che partono per Golmud tirandosi dietro una lunga sequenza di carrozze pressurizzate Bombardier.
Il giorno dopo sulla strada per Shigatse vedo che i lavori per la nuova tratta da Lhasa verso il Tibet Occidentale proseguono alacremente. E’ un’opera di ingegneria ferroviaria veramente impressionante, soprattutto nel Canyon di Nyemo dello Yarlung Tsangpo, cioe’ del fiume che a Sud-Est dopo la “Grande Curva” decide di andare in India, non in Cina, e diventa il Bramaputra. Da 3.700 a 4.000 metri di quota, gallerie che si aprono a strapiombo su pareti di roccia, viadotti ad altezze impressionanti, piloni piantati in mezzo a un fiume che al disgelo fa paura solo a vederlo, dune di sabbia che si spostano col vento, escursioni termiche giorno/notte da pianeta esterno che spaccano il permafrost … ed i piani stradali o le massicciate! E poi curve strette, gradienti che non ti dico. Confesso che NON sarei troppo tranquillo a fare il viaggio da Lhasa a Shigatse in ferrovia, quando questa sara’ finita intorno al 2013.
E poi … lo sappiamo che il treno e’ efficace, poco inquinante, di scarso impatto ambientale. Al contrario del brutto serpentone di cemento dell’autostrada nelle nostre Alpi le ferrovie si inseriscono tanto bene paesaggisticamente che alcune sono state addirittura dichiarate patrimonio UNESCO! Pero’ questo treno del Tibet NON e’ il treno dei Tibetani. Su queste rotaie viaggia l’invasione demografica: una nazione di 6 milioni con a fianco un’altra di 1500 milioni di persone … non aggiungo altro perche’ mi avete gia’ capito. --- o --- Insomma, comunque sia, la prima locomotiva ad arrivare a Shigatse non e’ una cinese ma una piccola americana Made in Como … anche se in HO, un po’ malandata e neppure piu’ giovanissima: classe 1955! Nel corso di un po’ di gelide serate a Shigatse mi dedico al restauro: qui non ci sono molte distrazioni alla sera, a 4.000 metri di quota. Per prima cosa un po’ di documentazione. La nostra storia inizia nel 1912 (niente paura: la facciamo breve!) quando la Baltimore & Ohio ordina alla Baldwin Locomotives Works quattro motrici da manovra ("switcher") a passo corto per la movimentazione merci nella zona del porto di Baltimora. Il Progetto C16 della Baldwin è quello di una locotender rodiggio 0-4-0 con passo interassi ridottissimo, alimentazione ad olio combustibile e distribuzione Walschaerts.
Immatricolate coi numeri 96-97-98-99 queste macchine si dimostrarono ben riuscite. Per motivi imprecisati, forse più logistici-economici che meccanici, nel 1926 due di esse (le 96 e 99) furono trasformate per alimentazione a carbone (progetto C16a) mutando notevolmente di aspetto (vedi foto). Bruciando nafta o carbone, sia come sia, le C16 lavorarono duramente fino al 1950: 38 anni di onorato servizio. E come sempre accade per i veicoli che si guadagnano l'affetto dei loro equipaggi anche alle C16 vennero affibbiati nomignoli; nel caso specifico "Dockside" e "Little Joe"
Scomparse dalla scena ferroviaria reale le C16 continuarono (e continuano) peró a vivere nel mondo fermodellistico, dove ebbero uno straordinario successo. I motivi di tale successo dipendono secondo me dalla forma particolarmente "simpatica" della Little Joe, tozza e massiccia, specialmente nella configurazione base a nafta. E poi anche dal passo cortissimo. Una differenza notevole nel fermodellismo rispetto al mondo ferroviario reale sta infatti nel raggio di curva. Nella realta' sono rare curve con raggio <800 metri mentre nel fermodellismo per motivi pratici (una riproduzione in scala del raggio di curva reale porterebbe a tracciati larghi 10 metri!) le curve strette sono la regola. Ebbene, nelle curve strette, grazie al passo molto corto, sia nel modello come nel reale, la Little Joe fila via senza problemi! Molte case (Varney, Sakura, GEM …) fecero quindi il loro bravo modello della C16 e naturalmente anche l’ing. Rossi, con il suo fiuto per gli affari, non se lo lascio’ scappare. Dopo la primissima serie, fatta solo sulla base delle foto e un po’ spartana, la Rivarossi ebbe a disposizione i disegni costruttivi, rifece gli stampi e costri’ la distribuzione … ancor oggi un piccolo capolavoro di micromeccanica.
A questo punto restauriamo la confezione. Per mia esperienza un modello senza la sua “scatola”, sia essa per riporolo oppure da “display” per esporlo, resta un po’ orfano e rischia anche una brutta fine. Quindi disincollo la vecchia scatola, la apro, la scannerizzo, rifaccio al computer e ristampo i frammenti mancanti, rinforzo il tutto e la richiudo. Per non lasciare in giro i vari pezzi durante il lavoro (con rischio che finiscano nella pancia di Dorje, il mio cucciolone - 45kg - di molosso tibetano … che si e’ gia’ mangiato tranquillamente 6 paia di ciabatte!) faccio anche uno scatolotto “pezzi di rispetto”. Come vedete sul coperchio ho messo questa illustrazione di Della Costa, la copertina del catalogo 1954, praticamente un quadro naïf.
Verifichiamo ora che ci siano tutti i pezzi e che cosa funziona, cosa no. A quanto pare c’è proprio tutto … tranne una delle 4 boccole-guida in ottone per distribuzione e stantuffi a livello dei cilindri. Rifare di precisione un pezzetto così, qui, sarebbe un bel problema. Fortunatamente trovo subito un tubetto in Teflon, proveniente da uno spray per la pulizia degli schermi LCD, che ha i diametri esatti: tagliati 4 pezzi a misura per ora andranno bene questi. Inoltre 2 dei 4 captatori in rame armonico sulle ruote sono spezzati e bisognera’ ricostruirli; tuttavia anche con 2 soli il passaggio di corrente al motore è possibile. Su uno spezzone di binario Backmann recuperato a Pechino ed alimentato con un trasformatore da notebook collegato ad un potenziometro (recupero da una delle solite abat-jour cinesi che vanno fuori uso dopo una settimana) faccio allora una rapida prova motore: perfetto! E non solo: anche il fanale “di prua” a incandescenza è ancora lì, dopo 50 anni, pronto a illuminare la strada alla C16!
A questo punto bisogna ricostituire il blocco cilindri-zavorra in un tutto unico. Ho letto l’articolo di Pardini su Rivarossi Memory e lo so che NON bisognerebbe usare la cianoacrilica perchè cristallizza e quindi, siccome la degenerazione della zama continuerà comunque, non avendo elasticità è destinata a fissurarsi. Tuttavia i cilindri sono talmente malridotti che anche la minima manipolazione potrebbe ridurli in polvere, quindi temo sopporterebbero male i riscaldamenti necessari a far ben penetrare la bicomponente. Inoltre fin dall’inizio il progetto è quello di ricostituire il pezzo solo come modello statico perchè la zamapest, anche se temporaneamente bloccata, col tempo lo renderebbe comunque inaffidabile. Una volta rientrato in Italia rifaró con calma al tornio e fresa tutto il blocco, in ottone dal pieno. Al momento peró una prima passata con cianoacrilica, oltre a tenere assieme tutti i frammenti, ha anche il vantaggio di una forte retrazione in seccaggio, tirandosi dietro tutti i pezzetti e ridando quindi una parvenza di “dignità morfologica” (come si dice in anatomia) al pezzo. In effetti succede proprio così ed ora che i cilindri possono essere manipolati li foro non-passante a misura per inserire due spine di fissaggio in acciaio, in modo da dare un po’ di solidità al blocco.
Successivamente scaldo bene il tutto (cilindri spinati, zavorra e i due componenti separati della epossidica) con un asciugacapelli (… sarebbe meglio il forno, ma NON ce l’ho). La manovra rende la colla bella fluida e quindi capace di penetrare bene in profondità nelle fessure per capillarità. Uniti i vari pezzi e spalmati ben bene con la epossidica, dopo adeguata asciugatura (una giornata) il risultato è questo “downright ugly” = realmente orribile manufatto … che tuttavia ha il pregio di essere un pezzo solo. Per i vari frammenti mancanti effettuo una ricostruzione ex-novo utilizzando come cemento-K una miscela di epossidica con limatura di ferro.
Inizia ora un paziente lavoro di lima e carte abrasive necessario a riportare per quanto possible il blocco entro le quote originali. La degenerazione della zama porta infatti come sappiamo al gonfiaggio di tutto il pezzo quindi, anche se ricostituito in un blocco unico, l’assieme cilindri-zavorra non rispetta - per eccesso - le misure originali. Occorre un po’ di olio di gomito per riportare senza forzamenti la zavorra dentro alla cassa. Il problema principale peró sta nel fatto che gli interassi di stantuffi e distribuzione sono tutti allargati di qualche decimo. Naturalmente sarebbe possibile riportare tutto a misura tappando il foro con il cemento-K e riforando di precisione; tuttavia se il pezzo è solo statico il gioco non vale la candela. Il pezzo dinamico definitivo con le misure esatte sarà quello in ottone, non in zama. Per ora ci accontentiamo di un restauro statico. Dopo una veloce passata protettiva in grigio (che mi convince, dato l’odore veramente pestilenziale delle pitture cinesi, a rimandare a tempi migliori ulteriori verniciature) ricostruisco i captatori con un filo armonico di recupero da un portapile. Poi, rimontata la macchina, faccio una piccola prova su strada - con sole bielle di accoppiamento – sullo spezzone di binario: la “Giggia” fila sempre come una scheggia! Rimontati anche i biellismi completi verifico che in effetti questi forzano leggermente in allargamento (si vede anche dalle foto) quindi è del tutto sconsigliabile utilizzarli in movimento. Non resta quindi altro, per ora, che fare qualche foto ricordo: la Dockside, di nuovo tutta d’un pezzo, passa 2 km a Nord di Shigatse, presso lo stupa-chorten di Chopkye.
E poco dopo mentre arriva a Shigatse, con sullo sfondo i tetti dorati del monastero di Tashilumpo.
Fotografato il blocco cilindri-zavorra e passato in CAD per raytracing: il file verra’ utilizzato come base per il disegno del pezzo definitivo con le quote esatte.
Caricato dalla affezione e dai ricordi a distanza di 50 anni ancora un piccolo oggetto come questo sa divertire e dare soddisfazioni. La Giggia mi ha aiutato a passere il tempo in queste fredde serate di fine inverno. Adesso anche qui arriva la primavera: come una strada dritta tracciata verso il cielo e verso nuove avventure.
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