VITE PARALLELE

Rivarossi e Mercury

(testo di Gabriele Montella)

                                                                                                    

Ricordate Plutarco, lo storico greco del 1° secolo d. C. che aveva individuato singolari parallelismi tra le vite di grandi personaggi della storia greca e romana?

A costo di qualche forzatura ne trovò ben ventidue (come ad esempio quello tra Alessandro Magno e Cesare, o quello tra Alcibiade e Coriolano) e li raccolse nella sua opera più importante, Le vite parallele appunto.

Se il suo spirito fosse poi trasmigrato per una sorta di metempsicosi nel corpo di un appassionato di modellismo che avesse vissuto gli ultimi decenni, sicuramente avrebbe aggiunto un ventitreesimo capitolo, quello dell’impressionante parallelismo delle vicende aziendali della Rivarossi e della Mercury, per anni leader incontrastata in Italia nella produzione di modelli di automobili (e non solo), le c.d. macchinine.

I primi anni del dopoguerra e l’inizio delle due avventure.

Nella sua intervista l’ing. Rossi ha ricordato come avesse rilevato nel 1945 una parte delle quote di una fabbrica di commutatori elettrici nella quale già operava il Riva, ripromettendosi di convertire la produzione nei trenini elettrici.

Lo stesso successe per la Mercury che era stata fondata a Torino nel 1932 da Attilio Clemente e Antonio Cravero per la produzione di componenti metallici per l’industria automobilistica.

In quello stesso anno 1945 decisero di convertire l’azienda alla produzione e commercio di giocattoli e in particolare di modellini di automobili.

In entrambi i casi fu una scelta lungimirante e coraggiosa.

Lungimirante perché avevano previsto una rapida ricostruzione dell’Italia dopo il disastro della guerra e il progressivo recuperato benessere avrebbe creato  un mercato anche nel settore del giocattolo di pregio.

Coraggiosa perché nei rispettivi settori sarebbero stati i primi in Italia (Conti e Lima sarebbero arrivati qualche anno dopo, Politoys, poi divenuta Polistil, solo nel 1960) ma soprattutto perchè avrebbero dovuto affrontare la concorrenza di due colossi esteri nei rispettivi settori, già presenti sul mercato italiano prima della guerra.

Rivarossi avrebbe dovuto vedersela con la Marklin, Mercury con la Dinky Toys, nata nel 1934 come branca della Meccano Ltd di Liverpool che avrebbe dovuto occuparsi della “modelled miniatures”. 

                                                  

 

(Il primo modello Dinky Toys: 1934)

E a questo proposito piace sottolineare non un parallelismo ma un curioso incrocio, perché la Meccano Ltd era stata fondata nel 1907 da un geniale ingegnere autodidatta, un certo Frank Hornby…

Una scelta sì coraggiosa ma gestita da entrambi non avventatamente.

Rivarossi infatti, al fine di garantirsi i mezzi finanziari adeguati per consolidare l’ingresso nel nuovo mercato per qualche anno si dedicò anche alla commercializzazione in Italia dei prodotti dell’inglese Lines Bros. (macchine a pedali e bambole in vinile).

Parallelamente Mercury per qualche anno continuò la produzione e la vendita di altri giocattoli (per le bambine mobiletti per cucina e bilancine per le case della bambole, per i maschi fucilini e cannoncini a molla che sparavano chicchi di riso).

Le prime produzioni

Come più volte detto l’iniziale mercato di riferimento per entrambi era quello del giocattolo: i pochi collezionisti con le loro esigenze di perfezionismo avrebbero dovuto attendere.

C’era quindi spazio per prodotti che solo richiamassero l’idea del reale.

Rivarossi iniziò nel 1946 con l’automotrice elettrica delle Ferrovie Nord Milano, rivisitata con la sola porta centrale invece che con due.

 

Nello stesso anno 1946 da Mercury esce il primo modellino, di qualità approssimativa, che si rifaceva alla Aprilia Coupè, chiamato con l’accattivante nome di fantasia di “Aero”.

 

(Cortesia di Guglielmo Piola)

E’ curioso il fatto che tale modellino inizialmente non era destinato alla vendita ma era stato prodotto in un centinaio di esemplari per conto di una ditta che vendeva apparecchi radio, la SAFAR di Milano, che li avrebbe offerti come gadget ai suoi migliori clienti.

Il modellino era in scala 1/40 (e su ciò si ritornerà) e restò un produzione  per la vendita fino al 1952 con numerose varianti non solo di colore, una anche con una curiosa motorizzazione a torsione di elastico.

Parallelamente anche la A E 2002 FNM di Rivarossi restò in produzione fino a quello stesso 1952 con successive varianti….

Le scale

In altra parte del Sito viene compiutamente trattato delle scale di riduzione adottate inizialmente da Rivarossi per concludere come dal 1955 venne definitivamente adottata per la produzione italiana la scala 1/80.

In Mercury successe qualcosa di analogo.

Ricordiamo innanzitutto come nel modellismo automobilistico la scala classica (quella, per intendersi, adottata da sempre dalle inglesi Dinky Toys e Corgi Toys, e dalla francese Solido) è la 1/43.

L’iniziale produzione di Mercury spaziava invece, piuttosto disordinatamente, dalla 1/40 alla 1/50 e anche oltre.

Ammesso che ciò fosse vero (come detto i primissimi modelli erano di fantasia, come la Aero) penso che ciò fosse dovuto da un calcolo della scala a posteriori tenendo conto del casuale sotto o sovradimensionamento dello stampo.

Come Rivarossi fece nel 1955 fissando, almeno per la produzione italiana, la sovrabbondante scala 1/80, anche Mercury dall’anno precedente aveva unificato la produzione nella 1/40, ugualmente sovrabbondante rispetto alla classica 1/43.

Solo in seguito entrambe si uniformarono agli standard internazionali: Rivarossi nel 1986 con la E 321, Mercury  già nel 1962 con la splendida Fiat 2.300 S coupè.

  

(Da www.automodellando.it)

Dalla immagine che precede si può notare come anche Mercury vendesse i modellini in scatole di cartone con la riproduzione disegnata.

Tali illustrazioni erano opera di un valente disegnatore, Mario Davazza: non erano certo all’altezza di quelle di Rivarossi affidate ad Amleto Dalla Costa ma erano ugualmente pregevoli.

 

Invasione di campo.

Recentemente sul Sito il nostro Giorgio ha pubblicato un interessantissimo contributo sulle macchinine di Rivarossi, prodotte a far tempo dal 1948 e quindi proposte nel 1950 su carri pianale.

Fu un esperimento che non ebbe seguito, ma valse come manifestazione di orgogliosa autosufficienza.

Mi spiego meglio.

Nel 1949 la Mercury aveva tentato una incursione nel settore fermodellistico avviando la produzione di una serie di modellini in scala 1/86, denominati micromercury.

Nelle intenzioni erano destinati al mercato dei giocattoli di poco prezzo, i c.d. penny toys, ma anche ai primi fermodellisti per decorare plastici e diorami.

I primi modellini riproducevano oltre alla Aero, una sportiva Farina, una Lancia Aprilia).


 (Cortesia di Guglielmo Piola)

Mercury si era limitata a pantografare gli stampi dei corrispondenti modelli in 1/40 ed il risultato finale ne risentì, restando molto lontano di modelli della tedesca Wiking, indiscutibilmente i migliori nella scala 1/87, come del resto restarono lontane anche la macchinine di Rivarossi.

Inaspettatamente per Mercury si aprì un terzo mercato, quello dei produttori di trenini per la realizzazione di carri porta auto.

Il miglior cliente in questo mercato di nicchia fu la Conti Co.Mo.Ge. che per tutti gli anni ’50 e ’60 propose i suoi carri pianale  portanti singolarmente o in coppia i micromodelli di Mercury, anche quelli militari che nel frattempo si erano aggiunti in catalogo.

 Carro pianale Pocher con bulldozer Michigan della Mercury

Anche la Pocher acquistò micromodelli Mercury per i suoi carri pianale (la Fiat 1.400 e la Ferrari da corsa, ma anche quelli della serie “movimento terra” quali la pala meccanica Michigan).

Solo Rivarossi non si servì mai dei micromodelli di Mercury, preferendo orgogliosamente i suoi, anche se di qualità inferiore.

 

1954: esame di maturità per entrambi.

Sia Rivarossi che Mercury dopo quasi un decennio dall’avvio delle rispettive produzioni si sentivano pronti per il confronto con il reale, cioè mettendo sul mercato un modello che l’acquirente avrebbe potuto facilmente confrontare con l’originale.

Rivarossi lo fece nel 1954 con la Gr. 835 FS (cat. L/835/R)

(Da www.clamfer.it)

cioè con una locomotiva innanzitutto italiana e poi presente in tutti gli scali merci e al Sud anche al traino di convogli di carrozze leggere.

I ragazzi (che erano ancora il primo mercato di riferimento) potevano quindi giocare con una locomotiva vera che potevano vedere nelle stazioni delle loro città, e i primi collezionisti potevano ammirare la perfetta riproduzione del biellismo Walschaert.

Era ben vero che da un paio d’anni era in commercio la Atlantic 4-4-2 italianizzata con il suo complesso biellismo, ma anche quella era una macchina di fantasia.

Mercury dal canto suo approntò il modello di una autovettura uscita appena l’anno prima (1953) ma che era già diventata l’automobile tipo di quel ceto medio di riferimento e quindi tanti ragazzi potevano giocare con la macchina di papà.

Era la FIAT 1100 103.


 

Questa la riproduzione di Mercury:

Era in scala 1/48 con i paraurti cromati attaccati al fondino,  fari a chiodino applicati e pneumatici scolpiti.

Con mani esperte si poteva scrostare la vernice che ricopriva la modanatura superiore per un maggiore realismo.

Era proposta in varie colorazioni e si favoleggia di una rarissima bicolore bianco/rosso denominata “taxi di Berna”.

 

 

Per la FIAT due aziende ugualmente serie e affidabili.

La serietà di un imprenditore non si misura solo con la puntualità con la quale paga i fornitori o dalla correttezza nelle relazioni sindacali.

E questo la Fiat lo sapeva bene quando affidò a Rivarossi i segretissimi disegni originali dalla “600” perché approntasse il modellino da presentare in contemporanea con la vettura al Salone dall’automobile di Torino del 1955. 

 

 

E tale manifestazione di fiducia non era solo rivolta ai dirigenti (ing. Rossi in testa) ma anche agli operai e agli impiegati e addirittura agli stampisti esterni.

La stessa manifestazione di fiducia la Fiat la ebbe nei confronti di Mercury quando gli affidò sempre in via riservatissima i disegni della “850” per l’approntamento del modellino da offrire come gadget in occasione della presentazione ufficiale della vettura il 5 maggio 1964.

                    

Era in scala 1/43 con il solo cofano apribile, per contenere il costo in 600 lire, perché la concorrenza cominciava a farsi sentire.

 

I gioielli di famiglia

Ogni imprenditore-fabbricante sogna di poter realizzare almeno un prodotto di altissimo pregio che sia il risultato dell’esperienza di anni, che nel suo settore possa essere ammirato e invidiato dalla concorrenza ed il cui nome venga

in futuro indissolubilmente ricondotto al suo, quasi per antonomasia.

Non avrebbe importanza il fattore costi, perché per una volta nella vita aziendale ben si può produrre in perdita (semel in anno …).

Negli anni ’50 o ’60 un fabbricante del settore modellistico in quale realtà sociale ed economica sarebbe andato a trovare un originale da riprodurre se non negli Stati Uniti, dove tutto era eccessivo, rutilante e visto da noi in Italia come un grande spettacolo di tecnica e di sfoggio di lusso anche a prezzo del buon gusto?

Rivarossi si tolse questo sfizio, come direbbe un napoletano, nel 1967 con la Big Boy.

Non perdo tempo a trattarne perché troppo nota a chi mi legge, ma ne riporto una fotografia perché, come si dice, è sempre un bel vedere.

 

Mercury aveva fatto riferimento alla stessa realtà dieci anni prima, quando la magnificenza della società americana era vista ancor più come un mito, un …Eldorado.

 

La Eldorado fu prodotta dalla Cadillac dal 1953 al 2003, in varie versioni via via meno rutilanti ma sempre eccessive per il nostro gusto: il prezzo della prima serie era di ben 7.750 dollari, ma il successo fu immediato perché venne subito vista come uno status symbol.

Mercury riprodusse una delle prime serie, quella con i fari singoli, con questo risultato.

       

 

Il successo fu immediato perché venne ammirata la perfezione della pressofusione di alluminio, la purezza della linea e i particolari del poderoso paraurti anteriore, del fregio a “V” sul cofano, delle pinne posteriori.

Stupendo anche l’interno, con il cruscotto e i sedili che riportavano anche la cucitura della imbottitura, tutto in pressofusione, tranne il volante e ovviamente il parabrezza.

Si diceva del rischio per entrambi, Rivarossi e Mercury, di non rientrare dai costi, ma non fu così.

La Big Boy venne infatti venduta in centinaia di migliaia di esemplari, la Eldorado in diverse migliaia, realizzate in ben dodici combinazioni di colori per la carrozzeria e gli interni.

 

        ( Cortesia di Edizioni Cortina: “Mercury – Tutta la produzione” )

 

Con buona pace di Euclide…

…e del suo postulato queste vite parallele una volta si incontrarono.

Negli anni ’50 Rivarossi aveva messo in vendita un graziosissimo carro pianale con gru, sia per la Serie Rossa (quella standard: cod. C.G./R) sia per la Serie Blu (quella per il sistema a tre rotaie: cod. C.G.)

 

 

(Entrambe le foto sono di Luca Seria, Presidente del Fermodelclub di Portogruaro,

che qui ringrazio insieme a Massimo Cecchetti che me le ha fatte avere).

Stando al testo “Mercury – Tutta la produzione” (Edizioni Cortina, Torino 2005, pagg. 465), quelle gru sarebbero state prodotte da Mercury (pag. 447).

Ciò appare strano se si raffronta quella gru con quella che equipaggiava un coevo camioncino in scala 1/40.

 

(Cortesia di Edizioni Cortina: “Mercury tutta la produzione”)

Quella di Mercury era infatti realizzata in pressofusione di alluminio mentre quella di Rivarossi in economico lamierino tranciato, con il difetto di essere fragile e di andare incontro a fenomeni di ossidazione.

La ralla era fissata al pianale con una vite, così che il braccio potesse ruotare ed il gancio era fisso.

Stando a Luciano Luppi (che qui pubblicamente ringrazio per avermi guidato in questa parte della ricerca) le gru di Mercury sarebbero state di produzione della ditta Agostino Marchesini di Bologna, che in quegli anni produceva, tra l’altro, modelli di camioncini in latta.

La scritta “A.M.-BO” sul lato sinistro sta indubitabilmente a confermare la fondatezza della attribuzione.

Resta comunque il fatto che le due gru tranne che per il materiale sono assolutamente identiche.

L’unico modo per coordinare l’autorevolezza del testo di Cortina con la fondata attribuzione di Luppi sembra quella di ipotizzare che Mercury fosse rivenditore esclusivista delle gru della Agostino Marchesini e che come tale le avesse cedute a Rivarossi.

Infatti il marchio “Mercury” impresso sui lati delle gru di sua produzione era troppo evidente per essere tollerato da Rivarossi, senza contare la concorrenza tra le due aziende di pochi anni prima con lo sconfinamento di Mercury nella scala 1/86.

Meglio era avvalersi di quelle della Marchesini il cui marchio era meno noto.

Anni dopo Mercury realizzò una seconda versione della gru per equipaggiare uno dei camion della nuova serie di fantasia “Ciclope”.

 

(Cortesia di Guglielmo Piola)

Quest’ultima versione era sempre in pressofusione di alluminio ed era dotata di un piccolo argano.

Rivarossi non si servì mai di questa versione: la sua produzione stava infatti abbandonando l’aspetto giocattolesco per avviarsi definitivamente verso la produzione di qualità, quindi realistica.

Al contrario questa versione della gru venne utilizzata dalla Conti Co.Mo.Ge. per il suo pianale attrezzato.

 

Finali di partita

La crisi di Rivarossi ha radici lontane, nel 1984, con il primo ricorso alla procedura di Concordato preventivo che almeno aveva permesso di salvare di assets più pregiati facendoli acquistare dalla “Nuova Rivarossi”, alla quale tuttavia restò estraneo il Fondatore.

Entrarono nuovi soci, interessati più all’aspetto finanziario che a quello creativo e che portarono ad un pasticciato intreccio societario con la Lima.

Nel 2000 venne chiuso lo stabilimento di Sagnino con il passaggio di tutta la produzione allo stabilimento di Isola Vicentina, chiuso a sua volta nel 2004 con la conseguente liquidazione definitiva con la cessione del marchio e degli stampi alla britannica Hornby e la delocalizzazione in Cina.

Quella di Mercury risale alla fine degli anni ’60 quando non seppe accorgersi di un mercato divenuto più esigente perché sempre più composto da collezionisti, che sono esigenti per natura.

Invece che raffinare la produzione nel 1969 diede avvio ad una serie economica, denominata “Special”, caratterizzata da un numero minore di parti apribili se non assenti, e immessa sul mercato al prezzo di appena 500 Lire.

Qualcosa di simile aveva fatto Rivarossi nel 1959 con la “Serie rr” e nel 1967 con la “Serie Junior”, ma con altre finalità.

Dal 1970 la parabola di Mercury è tutta in discesa, anche per la scomparsa dei due fondatori: il catalogo si impoverisce riportando per lo più rielaborazioni di vecchi modelli e molti dei nuovi annunciati, i c.d. modelli fantasma, non vennero realizzati per l’impossibilità economica di approntare gli stampi.

Il colpo di grazia fu il passaggio della Bburago dalla scala 1/24 alla 1/43.

Oltre che ottime realizzazioni quei modellini erano anche ottimamente presentati in piccole teche pronte per l’esposizione da parte dei collezionisti, mentre Mercury proseguiva con le ormai obsolete confezioni in cartoncino disegnato.

Nel 1978 la Mercury scompare di scena e la società viene messa in liquidazione.

Dopo varie vicissitudini il marchio e gli stampi di pregio vengono rilevati da una seria azienda italiana (!), la genovese Scottoy.

Se il canto del cigno di Rivarossi italiana era stato nel 2002 la splendida Allegheny,

 

quello di Mercury era stato a fine 1977 una pessimamente rifinita Fiat Ritmo, se possibile ancora più brutta dell’originale, ed è impietoso il confronto con la produzione della concorrenza.

  

Un vero peccato, soprattutto per quelli della mia generazione, che si sono sbucciati le ginocchia sul selciato del cortile facendo correre le macchinine lungo le piste disegnate col gesso che avevamo preso a scuola….

 

Catalogo Mercury anni '60

Il Colibrì della Mercury

 

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